Bentornato a casa

È già buio. Dopo una galoppata stremante l’aereo stacca il suo enorme corpo dal suolo e si alza finalmente...

È già buio. Dopo una galoppata stremante l’aereo stacca il suo enorme corpo dal suolo e si alza finalmente… Ormai ho volato talmente tante volte che dovrebbe sembrarmi normale, ma ogni volta il decollo mi emoziona Questo gigante di ferro che si porta in cielo tutte queste persone riesce sempre a riempirmi di stupore e a farmi cagare un po’ sotto. Ognuno se ne sta li seduto sulla sua poltrona volante come se sfrecciare nel cielo a cinquecento chilometri orari fosse la cosa più normale del mondo. Così mentre gli altri passeggeri leggono, finisce che io rimango sempre attaccato al vetro guardando fuori e chiedendomi (tra l’altro) se non sarà per caso l’ultima cosa che faccio.

Ricordo che la prima volta che ho volato ho passato tutto il tempo a guardare le nuvole sotto, come se da un momento all’altro dovessi per forza intravederci qualcuno che ci camminasse sopra. E invece niente… tutto quello spazio sprecato. Vuoto. Quelle meravigliose catene montuose dalle forme pazze, completamente disabitate, senza neanche un angelo, un unicorno, un marziano o magari un signore con la barba che prende il caffé godendosi lo spettacolo di questi moderni Aladini che vanno o tornano dalle vacanze, portando soltanto uno zainetto per risparmiare. 

Con tutta quella profondità che c’è li sotto sembra quasi sprecato dovercene stare tutti appiccicati alla buccia di questo pianeta. 

Guardo fuori, scrutando Praga dall’alto non trovo nessun punto di riferimento che mi aiuti ad orientarmi e a farmi capire dove potrebbe essere casa mia.

Le città di notte, viste da quassù, sembrano tutte uguali.

È da qualche anno che ormai, quando torno a Praga, ho la strana sensazione di essere tornato a casa…. però poi arrivo a Roma e anche li mi sento a casa. In compenso mi sento come un pesce in un campo da tennis ormai in tutti e due i posti. Vivere all’estero ti cambia il modo di vedere casa e di vedere il tuo paese. È un po’ come allontanarsi da una parte di te stesso… quella che ti fa vedere le cose come se fossero normali. E dopo un po’ ti rendi conto che tutta quella normalità che vedevi prima era solo una allucinazione tua… Il tuo modo di parlare di pensare, di essere, sono normali soltanto finché resti nel buco del culo dove sei nato. Quando ti sposti anche di un po’, allora tutto si smonta, piano piano o tutto di botto, e anche quello che tu pensavi di essere si smonta. E il tuo lavoro, allora, diventa quello di rimettere insieme quei pezzi in modo che sembri ancora che le cose abbiano una loro coerenza e un senso. 

Che poi è quello che facciamo sempre tutti. Comunque.

I cechi dicono che una persona è tante volte uomo quante sono le lingue che parla. Ma io non penso che sia cosi, perché non basta parlare una lingua per entrare un una cultura, ma vivere in un posto si, ti fa uscire delle cose che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra forse per sempre se solo te ne fossi rimasto a casa tua. 

Credo che uno non è sempre la stessa persona, ma e come se avesse dentro tante persone dentro… e ogni posto in cui vai a vivere te ne tira fuori una, che magari non sospettavi neanche di contenere.

Questo lo avevo già notato una notte ti un po’ di anni fa sotto un impressionante cielo africano, forse il più bello che ho mai visto. Ero con quattro amici guineani bloccato in mezzo a una foresta, che Dio solo sa dove, da una maledetta buca che ci aveva fatto esplodere due gomme in un colpo solo. 

Chiaramente della ruota di scorta neanche a parlarne, che Allah ha già previsto tutto e allora che cavolo ci devi fare con una ruota di scorta?

Così dopo qualche minuto passato a guardare gli occhi e i denti dei miei amici che giravano intorno alla macchina domandandosi come ce ne saremmo andati, abbiamo iniziato a vedere un sacco di altri occhi e denti che uscivano fuori dalla foresta.

Erano gli abitanti di qualche villaggio che, richiamati dal botto, erano arrivati a vedere cosa fosse successo. Non nascondo che un po’ mi sono agitato…ma alla fine, invece di metterci in un pentolone – come uno si sarebbe ragionevolmente aspettato – si sono sbattuti per toglierci da quella situazione. Dopo un sacco di discussioni in una lingua di cui è impossibile per noi capire anche un solo suono, e di gente che andava e veniva, è saltato fuori un tipo magrissimo e alto, con una canottiera bianca piena di buchi e una moto 50 sgangherata che faceva il rumore di una Harley Davidson, che ci ha risolto il problema portandosi con lui uno dei miei amici che manteneva in equilibrio tutte e due le gomme dell’auto, che sembrava quasi un numero da circo. 

Quando la moto si è allontanata la foresta è calata di nuovo nel buio e nel silenzio. Allora un mucchio di bambini hanno iniziato ad avvicinarsi a me, come in una specie di sfida tra di loro, a chi avesse trovato per primo il coraggio di toccare questo  ridicolo esemplare di uomo bianco che vedevano per la prima volta.

Quando dopo ore e ore siamo riusciti a riprendere il viaggio, stremati, uno dei miei amici (quello che aveva portato le gomme) ha appoggiato la testa sulla mia spalla e si è addormentato come un bambino, come se io fossi stato la sua mamma. Ecco. In quel preciso momento, dopo tanti anni passati a viaggiare in quel bellissimo e martoriato paese, quella è stata la prima volta che mi sentivo a casa. Il continente mi aveva accettato, ed io avevo lasciato che mi facesse diventare un po’ suo. 

A migliaia di chilometri da casa mia, in mezzo a una foresta, con le mani sporche di grasso e un grosso ragazzo nero e sudato che mi aveva scambiato per un cuscino.

Mentre penso a questo le luci della cabina si accendono e illuminano a giorno. Una voce piena di toni medi ci avverte che l’aereo inizia le manovre di atterraggio per l’aeroporto di Fiumicino. 

L’accensione delle luci interrompe anche bruscamente i bollenti spiriti di una coppietta che, forse è in vacanza per la prima volta assieme. Per fortuna… perché per un momento ho temuto che si sarebbero accoppiati sui sedili accanto a me. 

Sotto già si vedono le luci di Roma. Sembra immensa. Ma comunque le città di notte, viste dall’alto, sembrano tutte uguali. 

Quando l’aereo si posa a terra sono l’unico che applaude per qualche secondo, così tanto per rispettare uno stereotipo,  ma non riesco a coinvolgere nessun altro passeggero. La maggior parte ha afferrato il telefonino immediatamente, tentando di superare lo shock di aver passato quasi due ore senza. 

Mentre l’aereo avanza verso il gate una voce metallica ci da il benvenuto in inglese (ma con un forte accento calabrese). 

“Benvenuti all’aeroporto internazionale di Fiumicino. E per chi sta ritornando, bentornati a casa.”